Liberiamo energia!

“Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni mobili e immobili confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza, lotta al disagio.”

Dall’appello per la sottoscrizione della LIP sul riutilizzo sociale dei beni confiscati promossa da Libera nel 1995.

I beni confiscati: una speranza di riscatto per i nostri territori troppo spesso ignorata e disconosciuta.

Il 7 marzo del 1996, alla fine di un percorso che aveva visto migliaia di giovani e non di Libera e del mondo del sociale raccogliere strada per strada un milione di firme, veniva approvata finalmente la legge 106, la legge d’iniziativa popolare sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. 

È il tassello fondamentale per dispiegare tutto il potenziale della legge Rognoni-La Torre approvata oltre dieci anni prima subito dopo l’assassinio di Pio La Torre e del generale dalla Chiesa e che istituiva il reato di associazione mafiosa e lo strumento più efficace per colpire il dominio mafioso, la confisca dei beni.

Con il riutilizzo sociale dei beni confiscati si mettono le ricchezze sottratte alla criminalità organizzata (denaro, conti correnti ma soprattutto aziende e immobili come case, appartamenti, ville) nella condizione di poter restituire il maltolto alle comunità e ai territori afflitti dalla presenza mafiosa.

Il bene confiscato diviene il mezzo con cui costruire con la cultura, il lavoro, l’associazionismo e la buona politica il riscatto di un territorio: restituito alla società un bene confiscato diventa il luogo dove liberare le energie troppo spesso ignorate di uomini,  vdonne, giovani che non sono disposte ad abbandonare la propria terra a causa del ricatto mafioso ma vogliono invece farla fiorire con la condivisione e la solidarietà.

Dal 2010, i beni confiscati sono gestiti dall’ANBSC, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. L’agenzia si occupa di tutto il percorso di un bene confiscato: dalla confisca provvisoria a processo ancora in corso fino alla restituzione del bene alla collettività,attraverso i comuni (se il bene può essere destinato a soddisfare servizi come sanità locale, pubblica sicurezza o istruzione) sia attraverso l’assegnazione alle realtà dell’associazionismo, della cooperazione, del volontariato, che avranno vinto i bandi d’assegnazione.

Dal 2018, con i Decreti sicurezza di Matteo Salvini allora ministro degli interni, purtroppo si è aperta una nuova strada che i beni confiscati possono percorrere: quella della privatizzazione.

Secondo la normativa precedente, era possibile passare alla vendita di un bene confiscato solo perché il ricavato fosse destinato a rimborsare i creditori in buona fede – tutte quelle persone fisiche e/o giuridiche che vantano dei crediti verso persone verso cui si è proceduto alla confisca e che non hanno nessun legame con le attività illecite o che hanno contratto il credito ignari degli affari criminali – mentre con i decreti Salvini la vendita è stata svincolata da questo criterio.

Già da qualche anno Libera propone di utilizzare i fondi del FUG, il Fondo unico giustizia, in cui confluiscono somme, conti bancari, rapporti finanziari e assicurativi confiscati alla criminalità organizzata per pagare i creditori in buona fede evitando così di procedere alla vendita di qualsiasi bene.

Come giovani e student3 non possiamo che unirci alla proposta di Libera e sottolineare ancora la vergognosa condotta della destra che nega per ogni bene veduto una possibilità di riscatto ad un territorio e ad una comunità.

I beni confiscati sono possibilità, speranza, rottura con un passato di sfruttamento e violenza, sono futuro: Vogliamo ripartire dai beni confiscati nella costruzione dell’antimafia sociale che vogliamo.

“Vogliamo che i beni mobili e immobili confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza, lotta al disagio.”

Le nostre comunità possono fiorire. Partiamo da “un bene” per crearne altro.

Costruire Reti sociali: unire le forze, liberare energie.

Fare antimafia sociale vuol dire costruire una alternativa concreta di sviluppo per le nostre comunità, un’alternativa al ricatto mafioso, alla povertà nella quale questo ricatto sorge e diventa allettante, alla povertà che questo ricatto genera, all’assenza di prospettive dignitose per condurre la propria vita, istruirsi,  lavorare dignitosamente, amare liberamente, sperare nel futuro.

Per costruire questa alternativa serve unire tutte le forze a disposizione: istituzioni, sindacati, associazioni, cooperative, tessuto economico, possono e devono parlarsi.

L’incubatore di queste alleanze è già stata spesso l’esigenza di concorrere assieme ai bandi d’assegnazione dei beni immobili confiscati.

Secondo l’ultimo report di Libera sul riutilizzo sociale dei beni confiscati pubblicato il 7 di questo mese, sono oltre 24.000 i beni in gestione e oltre 1.000 i soggetti gestori che appartengono al terzo settore (insieme di quegli enti privati che perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche). (dati ANBSC).

Nella costruzione di queste reti del sociale, un ruolo fondamentale non possono che averlo l3 giovani.

Cresciut3 durante le crisi economiche degli ultimi vent’anni, sperimentata sulla propria pelle la pandemia e i suoi effetti socio-economici ed educat3 alla precarietà esistenziale fin dai banchi di scuola, abituate a non potersi fidare di uno stato sociale sempre più definanziato e indebolito, l3 giovani sono sia il segmento della popolazione più a rischio di cedere al richiamo della criminalità e del suo assistenzialismo sia il possibile motore del riscatto sociale di una comunità.

È da loro, che sono tra coloro che animano di più le realtà del mondo del sociale che bisogna ripartire.

Come Rete della Conoscenza, la rete delle organizzazioni giovanili più grande del paese, costruiamo ogni giorno spazi di decisionalità per l3 giovani di questo paese.

Costruiamo insieme l’alternativa politica che manca nelle nostre città e collaboriamo con le altre realtà che come noi concorrono a questo scopo da un punto di vista non generazionale.

Abbiamo tanta energia da liberare.

Il ruolo liberante dei saperi

Nel nostro Paese ormai da anni viviamo una condizione disastrosa per quanto riguarda l’edilizia scolastica in scuole e università, sia in termini di sicurezza delle strutture sia in termini di sovraffollamento, dando vita a quelle che vengono definite “classi pollaio”. Questo fenomeno è stato evidenziato chiaramente durante la fase pandemica ma è un problema che viviamo nelle nostre scuole e nelle nostre università da ben prima.

Sul territorio nazionale tra gli innumerevoli beni confiscati alle Mafie alcuni potrebbero prestarsi a diventare, come già è accaduto in oltre 30 casi, con un adeguato investimento, spazi scolastici o aggregativi per l3 student3.

Trasformare questi spazi da luoghi dello sfruttamento mafioso dei territori a luoghi in cui queste, con l’elaborazione di saperi liberi, si combattono non vuol dire solo avere più spazi fisici dove fare cultura ma anche educare a una società e un mondo diverso: parliamo di questo, infatti, quando parliamo di edilizia educante.

Per abbattere una volta il dominio mafioso, la formazione non si può fermare ai soli luoghi della formazione: serve che l’educazione sia permanente.

Gioca un ruolo in tal senso anche l’informazione che viene veicolata dai media – compresi quelli pubblici – dove però sentire parlare di mafie è sempre più difficile. 

L’agire di stampo mafioso – che ha dimostrato di potersi rendere legata a doppio filo con quella dell’apparato statale – e il racconto del suo contrasto sono argomenti raramente toccati che finiscono al centro del dibattito pubblico spesso solo possono tramutarsi in notizie ricche del colore e del folklore che hanno oramai acquisito lo stereotipo del mafioso da film e serie tv, ignorante, violento fuori da ogni logica. È così, attraverso la valorizzazione solo delle notizie che riescono a riproporre il modello del mafioso tipo ormai inserito nell’immaginario pubblico che vengono invisibilizzate tutta una serie di notizie e informazioni su un operato mafioso che è sempre meno caratterizzato da una violenza palese e spettacolare (e spettacolarizzabile) e sempre più capace di sfruttare tutte le possibilità di profitto che il sistema socio-economico-politico in cui viviamo offre.

Viviamo in un mondo in cui i mezzi che dovrebbero essere promotori e trasmissori della cultura, in ogni forma, non riescono ad andare oltre le notizie lampo e capaci di fare audience.

Come Rete della Conoscenza rivendichiamo infrastrutture pubbliche capaci di formare per tutta la vita oltre le scuole e le università l3 cittadin3 del nostro Paese, educandol3 a leggere e decifrare un mondo complesso e non a rincorrere i titoli sensazionalistici che narrano il mondo porgendo la mano a un sistema malato che vuole nascondere le sue contraddizioni.

Repressione

A livello mediatico e nella discussione pubblica più in generale, la lotta alle mafie viene sempre collegata all’utilizzo di strumenti repressivi e al rafforzamento delle forze dell’ordine.

Nell’anno passato, abbiamo al centro del dibattito sulla contrasto alle mafie ci sia stata, per assurdo, la vicenda di Alfredo Cospito e e la conseguente discussione sul 41Bis. Chiunque provasse a portare una critica a un modello di detenzione che disumanizza e non rieduca le persone soggette a questo regime carcerario, veniva additato come filomafioso e complice con persino pareri giurisprudenziali venivano derubricati a collaborazionismo con la mafia.

Inoltre, a seguito della vicenda di violenza sessuale di Caivano e il conseguente decreto legg, si è scelto ancora una volta lo strumento della repressione come modalità principale per combattere la criminalità organizzata. Il decreto, nei fatti, come riportato anche da una recente inchiesta dell’associazione Antigone, non ha fatto che rafforzare la dispersione scolastica, il sovraffolamento carcerario minorile e l’indebolimento dei processi di reinserimento nella società dei minori e dell3 giovani che hanno commesso reati puniti con la carcerazione e non.

Risulta evidente come misure di questo tipo più che efficienti contromisure ai fenomeni criminosi e mafiosi siano in primis strumenti di repressione e di criminalizzazione della povertà. Non ci si pone l’obiettivo di superare le condizioni sociali e materiali che creano l’humus fertile in cui nascono e prosperano le organizzazioni criminali ma si invisibilizzano e colpevolizzano tutt3 coloro che vivono situazioni di disagio sociale ed economico.

Inoltre risulta incomprensibile come ci si concentri sugli aspetti di microcriminalità della questione e si faccia finta di non vedere il gigantesco fenomeno della corruzione e della commistione tra potere politico e mafie. L’italia è al 42° posto mondiale per assenza di corruzione con un punteggio di dieci punti inferiore alla media europea ed è il paese dell’Europa occidentale nella posizione più bassa. Ogni mese nel nostro paese viene commissariato un ente locale per mafia, senza considerare tutte le dimissioni in blocco di comuni per indagini che non rientrano nel conteggio dei comuni sciolti. Nell’ultimo anno ci sono stati 18 provvedimenti tra Campania, Calabria, Sicilia e Lazio. 

La nostra antimafia non può che ribaltare questo paradigma e rifuggire da qualsiasi forma repressiva di gestione dei fenomeni mafiosi. Quelli che bisogna aggredire non sono i singoli individui portatori delle contraddizioni del loro contesto sociale, ma il contesto sociale stesso fatto di povertà materiale e incultura, un contesto sociale fatto di assenze di prospettive di riscatto che non siano legate alle organizzazioni criminali. Bisogna aggredire i patrimoni della criminalità organizzata che sono sottratti illegittimamente alla collettività. Bisogna aggredire quella cultura che non permette di immaginare prospettive di riscatto individuale e collettivo.

Per questo chiediamo un nuovo paradigma di società che metta al centro la risoluzione dei bisogni materiali, che permetta lo strumento dei saperi liberi come emancipazione, che crei un modello rieducativo nel caso si sbagli e non una punizione senza redenzione, una società in cui la presenza delle istituzioni sia per il supporto attivo e non per la criminalizzazione della povertà.

Per questo diciamo no alla repressione, sì alla società della cura, per un’antimafia sociale e popolare.